A B C D E F G H I J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z

Z Y X W V U T S R Q P O N M L K J I H G F E D C B A

questo suono è come qualcosa di veramente calorico che cola. Qualcosa della giusta temperatura, al giusto prezzo, con la giusta zuccherosità o salatezza, ma veramente calorico, qualcosa che mi sta riempiendo la pancia, che va ad attecchire direttamente allo stomaco e rimane là a fare avanti e indietro. Come quella scena di alien in cui l’alieno esce dalla pancia (ed è un peccato essere giovani perché si vorrebbe essere lì ad assistere a questo alieno che ti esce dallo stomaco, questa cosa che non sapevi cosa fosse e cosadiavoloè che esce dalla pancia e dall’interno e dalla parte più profonda di quello che sei, tutto questo per la prima volta, senza che ancora sia stata filmata nessuna parodia) questo suono ti esce dalla pancia e ti ricorda un sacco di esperienze passate e ti butta tutto nel futuro. Ho già vissuto la giornata di domani. Se il tempo è lineare è una bugia, se è circolare si morde la coda, se è complesso assomiglia ad una bicicletta.

Sulla pellicola impressionata di un centinaio di mondi diversi ne avrò presi al massimo due, o tre ad essere buoni; e non conosco persone buone.

Dall’alto dell’aeroplano in mezzo alla gente tatuata ne ho scattate alcune, sono state difficili, ma mi sto ancora divertendo – anche se ci sono troppi bambini.
Troppe persone che si impegnano troppo.

La prossima volta andrà meglio, prometto: la prossima volta andrà meglio, spero; la prossima volta, te l’assicuro, sarà il massimo. L’altra volta non era granché.

Ma non ci posso fare molto: sto facendo tutto il possibile.

C’è anche un modo per dire qualcosa che non sia bzz bzz gnàgnà rumore statico rumore statico imbarazzo? Ci sono un sacco di momenti di imbarazzo. Le hostess che vogliono venderti i gratta&vinci, le impiegate alla posta che vogliono venderti un gratta&vinci, il barista almeno non dice una parola. Il mio barista sottocasa si chiama Tonino Arraffa ed è totalmente insensibile all’imbarazzo. Ucciderebbe uno di quei turisti sorridenti che vogliono il barista da depliant alpitour, se non avesse già avuto guai legali. Bisogna dire che, meglio di Tonino, il caffè lo fa il ragazzo che sta la mattina presto e che ha problemi quando vengono gli indiani a chiedergli strane cose, come il latte con un goccio di latte di mandorla (forse era il contrario). Ed è anche velocissimo a porgerti il pasticiotto quando glielo chiedi.

Davvero il resto d’Italia è un inferno di cornetto. A Berlino il puddingballchen non era male, e tutti quei pretzel dolci caramellati pieni di crema buonissima: davvero la cosa che mi manca di più, oltre a quella di avere una linea metropolitana una sopraelevata e tutti gli autobus. Ma qui non ce n’è bisogno.

A te che oggi sei volte mi hai visto: se da mercoledì vuoi darmi una mano a rimettere in sesto la mia vecchia bici Olmo del nonno, che già si sta cominciando a sguarnire perché io sono un utilizzatore pesante per le biciclette, ecco tu che oggi sei volte mi hai visto, abito nel centro storico a Lecce, vieni a darmi una mano da mercoledì quando vuoi.

Cos’è il bello della scrittura. Il bello della scrittura è il bello di fare, di mettere in piedi quello che prima stava per terra, di miscelare e di generare qualcosa di nuovo, improvviso e diverso, accendere scintille appiccare fuochi, sputare eccetera.
Il bello della scrittura è l’attività dell’artigiano lunga e paziente, di prendere un blocco grezzo e dopo ore ed ore di lavoro stressante ed interminabile restituirlo al mondo finito, lavorato, liscio e ben progettato; ed il bello è anche l’attività istantanea ed illuminata, immediata, del gesto che in un attimo prende e rilascia tutto quello che ha da dire per lasciare un attimo cristallizzato in eterno; ed è anche bello far capire, spiegare, o lasciare non detto e schiudere un paradiso di possibili infiniti nella testa di chi immagina. Il bello della scrittura è lavorare con il ritmo, con il contrappunto, con l’a capo, con il bianco (senza fare come baricco che quando si stanca preme                                     la barra spaziatrice                                                                             come gli gira, perché lui è                                                                                          artemerda) e poi riempire tutto con qualcosa di estremamente lungo ed intenso e sconfinferato senza neanche la punteggiatura; diventa interessante quando si fa ricerca e si legge di altri e si scopre e si va nel mondo vero, dove esiste la realtà e non è solo dei simboli inchiodati; ed è bello giocare con i simboli e muoverli a piacimento e realizzare cortocircuiti ed infinite cose un po’ tristi per la loro continua insoddisfatta ambizione di rendersi vere. È anche bello magari rifiutarsi di vendere quello che scrivi ad un regista cinematografico oppure aiutarlo per fare qualcosa di bello oppure ignorarlo e pensare ad altro; diventa ancora più bello quando le persone fanno tuo quello che è tuo e nel condividere impari sempre qualcosa e diventi più alto, o più grosso, oppure ti cambia il colore dei capelli (i simboli non appartengono a nessuno).

Ispirato & conforme ad eventi realmente accaduti (con testimoni anche stranieri) presso Berlino la mattina dell’8 Agosto 2011

Da seguire con musica:

 

Ho Perso Il Tram Delle Quattro E Venti
a Berlino 

Ho perso il tram delle quattro&venti!
ho perso il tram delle quattro&venti;
ho perso il tram delle quattro&venti;
ho perso il tram delle quattro&venti!
con i soldi del currywurst comprerò un po’ di taxi,
Non credo che tornerò, prendi pure l’aereo da sola che
ho perso il tram delle quattro&venti. Non ritorno a casa.
Oggi no: non ritornerò, penso per un po’*
Ho la birra più pesante e due paia di panini, la maglietta del bauhaus e due fogli di giornale messi sotto la cintura;
lascio lo spazzolino sopra al termo e mi soffio sul caffé anche se fuori ci sono solo italiani.

* un buon motivo per non ritornare comunque è l’aeroporto di Milano Bergamo Orio al Serio come volete chiamarlo. Più orizzontale dell’aeroporto di Brindisi, più squallido dell’aeroporto di Bari e peggio organizzato dell’aeroporto di Lecce per aeroplanini e modellini radiocomandati. In filodiffusione continua un brano probabilmente scritto da Ca**eroli che parla della valle che risponde con gli zufi venuti giù dai monti e che ogni buon posto ci fanno un parcheggio, e “sembra di essere al salone / delle auto da cafone”. Quando ci sono arrivato**, per prima cosa sono andato al bar a chiedere un caffè. La ragazza dice: “caffè secco?”, io non avevo la minima idea di come dovrebbe essere un caffè umido perciò dico “un caffè e basta. Un vero caffè italiano”, molto pubblicitario. Lei mi guarda con supponenza e ordina al tipo al bancone un vero caffè italiano per il ragazzo, e quando poi è il mio turno lui mi dice “tu sei quello del vero caffè italiano”. Mi hanno marchiato. Ci sono dovuto stare un sacco nell’aeroporto, ma almeno sono incappato per caso in una simpatica ragazza di Lecce che conosco e ho scritto l’indice della mia tesi.

** Oltretutto senza veri ritardi perché in realtà non ho perso dei tram, ma il tram delle quattro e venti si è fermato in mezzo alla strada per un blocco elettrico in mezzo al nulla, mentre tornavamo dai nostri techno club. Le ragazze volevano prendere subito un taxi senza fare un passo perché dovevamo attraversare una strada totalmente spaventemente buia. Ma io ero disposto pure a farmela a piedi fino alla stazione dove c’era il nostro ostello (sei chilometri più in là) così alla fine abbiamo preso prima un altro tram e poi un bus notturno e siamo arrivati freschi freschi. Mi sono lavato, ho preso lo zaino e me ne sono tornato in Italia. Ci ho messo un giorno a collassare del tutto.

Ho avuto un’epifania nel futuro. Nell’esatto momento in cui suonerà la settima traccia (vd. Ungers et al. 2001 ppgg. 124-127) per un istante vedrò tutti gli sbagli e appunterò delle correzioni a matita.

Le gomme non cancellano la matita. Distruggono la carta. Seconda epifania.

Intervistata sul perché amasse far finta di avere i segni dei chiodi sulle mani, Teresa Neumann rispose: “Sono stati grandissimi uomini venuti dal cielo, sette giganti di luce discesi una sera. Io non ero nessuno e non avevo fatto niente e questi grandi déi di un altro mondo sono venuti da me.

Sono discesi, vestiti di oro, e mi hanno benedetta nel nome di Gesù. Con le loro novantasei ali di ferro sono venuti a prendermi e mi hanno fatto vedere cosa succedere a scucire i cieli e dare un’occhiata a quello che c’è dietro. Mi hanno fatta diventare una vera donna in un istante ed ora nascondo in me un diamante enorme e luminoso che non mi potrete estirpare, avete capito? Loro hanno scelto me e nessun’altra. Se provassi a spiegarvi, sarebbe… non si può fare, credo. Loro mi hanno detto così. Me l’hanno sussurrato, è un segreto, ora non dovrei neanche dirvelo. Anzi, per tutti gli angeli, cancelli tutto, la smetta di scrivere, la prego. Piuttosto, mi procuro le stigmate”

Inizia con una pagina bianca ed un punto,

se mi immergo nel punto considero un cerchio,

se lo vogliamo rompere, tracciamo una linea,

se ti volessi muovere, dirigi la linea verso un punto e segna un triangolo,

espandete la direzione in un raggio e vi spostate su un quadrato,

se moltiplica il quadrato, si ingrandisce in otto punte,

e quando vogliono tornare al centro, mangiano una punta e ne rimangono sette,

la tiro all’infinito, e ritorna nel cerchio,

se faccio un bel respiro, esco fuori e ritorno al punto,

e la pagina ritorna bianca.

 

Dal diario di bordo di Henry J. Stevenson, 1843, Oceano Indiano: mi mancano soprattutto i parchi di Londra, quando ci passeggiavo la domenica mattina, oppure quando ci si dava appuntamento per festeggiare il ritorno di qualcuno. Io non ritorno da ventuno mesi. Tre giorni fa abbiamo attraccato a Kupang ed un fotografo della marina è salito a bordo per delle foto. Non era la prima volta che mi fotografavano, ma non avevo mai visto un aggeggio così piccolo. Ci ha fatto quattro scatti e ci abbiamo messo meno di mezz’ora. Lui era di ritorno in Inghilterra insieme all’equipaggio della Little Princess. Il suo lavoro era documentare il lavoro degli uomini della marina e renderne conto a casa, dove intere famiglie aspettavano i cari ed i i dirigenti controllavano tutto sbirciando attraverso il fumo delle pipe. Se avessi la testa abbastanza buona per scrivere tutto questo, lo scriverei. Non mi piacerebbe molto che mia madre pensi che quello che faccio qua è stare tutto il giorno qua sul ponte, appollaiato sulle funi, a sorridere. Ma so che qualunque cosa mi venga in mente di scriverle, le arriverà nel momento in cui sarà diventata inutile. Prima non facevo mai pensieri così complicati. Attraversare un oceano è abbastanza noioso e pericoloso, il che, secondo qualcuno qui, è letale. Io non so. Quando attracchiamo e abbiamo un paio di giorni di licenza al porto voglio solo fare qualcosa che non sia attraversare una massa noiosa e pericolosa di mare. A volte mi piacerebbe scendere sul mondo, stendermi sul legno ed allungarci sopra tutto il mio corpo, avvolgere la terra e diventare più piatta di quanto lei sembri, e rimanere così tutto il tempo che ho a disposizione, dimenticando le osterie e il cibo e le donne e i soldi – solo per vedere se, finiti quei giorni, sono riuscito ad avvicinarmi per davvero alla terraferma.